Il blog di Dire Fare l'Amore

La frase minima [racconto erotico a sfondo sadomaso]

la frase minima
LA FRASE MINIMA

 

 

– Chi sei?
– Mi chiamo Ele…
– Irrilevante. Ti darò un nome quando ne avrò bisogno.
– Studio medicina…
– Irrilevante.
– Sono, ho ventiqua…
– Non mi interessa.

Il sole è tramontato da circa mezz’ora. La stanza è bagnata di una luce fredda, che entra dall’unica finestra, lasciata aperta. Una leggera brezza muove le tende bianche e l’orlo spazza il pavimento di legno sconnesso. L’aria è tiepida: quest’anno l’estate è in anticipo. La stanza è grande, di pianta quadrata, vuota, ad eccezione di due poltrone di pelle e di un tavolino in mogano, al centro. Su una di queste siede una ragazza di – lo sappiamo ormai – ventiquattro anni. Sull’altra l’uomo incaricato di esaminarla.
L’uomo si alza dalla poltrona e inizia a percorrere a passi lenti la stanza in senso antiorario. La ragazza cerca di seguirlo con gli occhi, poi rinuncia e appoggia lo sguardo nelle mani. C’è odore di chiuso. Dalla strada salgono rumori indistinti.

– Chi sei, dunque?
– Sono una schiava.
– A chi appartieni?
– A nessuno. Sono stata la schiava di…
– Parli troppo, e non voglio saperlo, ma mi occorre conoscere come sei stata iniziata, di che pasta sei fatta. Devo valutare le fondamenta.
– Sì. Sì, Signore.
– Lascia stare “Signore”.
– Mi scusi.
– E dammi del tu, non mi interessa la forma, la manfrina dei Master e delle Slave. Come ti ho già detto, voglio vedere la sostanza. Raccontami cosa fa di te una schiava.

L’uomo torna a sedersi. Solo ora la ragazza lascia che lo sguardo si arrampichi sulle scarpe, lungo i pantaloni di sartoria, accarezzi le mani nodose fino ai polsini di una camicia candida. Lì lo ferma sul gesto della mano dell’uomo che attraversa l’aria.

– Prego, ti ascolto.
– Non so bene da dove cominciare, sono un po’ emozionata. Mi sembra ancora tutto così strano, il viaggio, questo colloquio.
– Nessuno ti ha obbligata.
– Allora, partirei dall’inizio… il primo appuntamento. Sono andata a casa sua, voleva che la chiamassi “la sede”, quindi sono andata alla sede, che era poi il suo appartamento. Avevo paura di essere in ritardo, avevo corso, ero anche sudata. Il cuore mi batteva a mille. Mi ha aperto al citofono e sono salita.
– Cosa portavi con te?
– Mi era stato comandato di acquistare quattro pezzi di corda, di due metri ciascuno, e una ciotola di quelle che si usano per i cani. Ero andata a prenderli il giorno prima, li avevo nascosti nel mio armadio e poi messi nella borsa. Mentre camminavo per andare da lui, li sentivo dondolare nella borsa. Mi sembrava che tutti mi guardassero. Avevo paura. Voglia e paura insieme.
– Ascolta, ciò che hai provato è irrilevante. Voglio ascoltare solo i fatti necessari per farmi un’idea su di te prima che venga notte. Il mio tempo è prezioso e non devi farmene perdere. Mi dirai solo ciò che è successo, senza aggiungere i tuoi inutili commenti. Continua.
– Mi aveva dato delle istruzioni: mi sarei dovuta spogliare, avrei dovuto aspettarlo in ginocchio, in mezzo alla stanza, con gli occhi chiusi. Ho trovato la porta dell’appartamento socchiusa, sono entrata e ho fatto quello che mi era stato detto.
– Ho sete, versami da bere.

Sul tavolino c’è una brocca di vetro con accanto un bicchiere. La ragazza si alza, versa lentamente l’acqua facendo attenzione a non rovesciarne. L’uomo la osserva. La osserviamo anche noi: è una donna asciutta che si indovina ossuta, dalla pelle chiara, lentigginosa, rossa di capelli. I suoi movimenti sono nervosi, poco fluidi, ma può essere per la tensione, non un tratto caratteristico, perché per il resto – l’acconciatura con cui ha raccolto i capelli dietro la nuca, la deferenza appena accennata con cui si china -, dà l’impressione di una persona aggraziata. Potrebbe aver fatto danza da bambina. Veste un paio di jeans di marca, una camicetta di cotone bianco leggera, un paio di sneakers logore, ma pulite. Deve avere l’abitudine di lavarle spesso. Potrebbe però anche essere un’iniziativa della madre, perché tutto nei modi della ragazza lascia pensare a un’educazione severa e a una famiglia esigente, di quelle che ammette le scarpe da tennis solo se pulite.
Ha portato una borsa di tela, che ha appoggiato accanto alla porta. La borsa è piuttosto capiente e appare gonfia. Possiamo immaginare che contenga degli abiti in previsione di una notte fuori o magari un vestito più audace, che avrebbe voluto indossare per il colloquio, ma che poi non ha avuto il coraggio di mettere. Non stupirebbe che nascondesse degli oggetti comprati su richiesta dell’uomo.
La ragazza intanto ha finito di riempire il bicchiere fermandosi a un centimetro dal bordo. Ha posato la brocca. Non ha rovesciato nemmeno una goccia. Senza che nessuno glielo abbia ordinato, si inginocchia ai piedi dell’uomo. L’uomo la guarda, non commenta. Tiene il bicchiere in mano all’altezza del petto.

– Continuo?
– …
– Ero in ginocchio in mezzo alla stanza, nuda, il busto eretto e le mani dietro la schiena, come mi aveva detto; aspettavo che arrivasse, che mi desse un ordine… non sapevo cosa pensare. Avevo posato davanti a me la ciotola e le corde. Dopo alcuni minuti hanno iniziato a farmi male tutti i muscoli.
– Elenca i muscoli che ti dolevano mentre eri in ginocchio aspettandolo.
– Muscolo lungo del collo, muscolo traverso dell’addome, muscolo obliquo esterno, muscolo obliquo interno, muscolo pubocoggigeo, muscolo popliteo…
– Sei una studentessa diligente.
– A quel punto avevo davvero paura, non lo conoscevo e…
– Ancora!

L’uomo urla. Si alza in piedi di scatto. Il bicchiere si rovescia per metà sul pavimento.

– Ti ho già dovuto ripetere due volte che non mi interessano i tuoi commenti. Adesso dovrò punirti.
– Sì.
– Sei già stata punita?
– Spesso. Ho fatto molti errori.
– Che punizioni hai ricevuto?
– Sculacciate, frustate, umiliazioni.

L’uomo riprende a camminare per la stanza, sembra essersi calmato. La ragazza tiene lo sguardo a terra, aspetta il colpo che ha meritato.
L’uomo indica invece un ripostiglio.

– Pulisci.

La ragazza si alza. È indolenzita per la posizione, zoppica mentre si dirige verso lo sgabuzzino, ne esce con uno straccio in mano. In ginocchio per terra, asciuga con attenzione la macchia d’acqua che ha bagnato il parquet. Poi si rialza, ripone lo straccio, si rimette in ginocchio.

– Da ora in avanti non userai più né avverbi né aggettivi.
– Prego?
– È la tua punizione, ti restringo il linguaggio. Continua.
– È difficile. Provo. Aspettavo. Lui è arrivato. Ho sentito i passi che si avvicinavano. Non ha parlato. Ho udito dei rumori come se prendesse qualcosa da un armadio. Mi ha detto di cambiare posizione.
– Quale?
– Mi ha fatta mettere a quattro zampe.
– Il petto, la faccia, dove?
– La faccia appoggiata e la schiena inarcata.
– Il culo.
– Il culo… alzato.
– Voglio sentirti raccontare.
– Mi imbarazza, mi sento nuda.
– Invece questi jeans stretti ti stanno bene. Dimmi il culo, ora.
– Sollevavo il culo, inarcando la schiena.
– Cosa dovevi fare?
– Dovevo ruotare il bacino per mostrare la..
– Dovevi spingere la fica fuori, mostrarla. Ripetilo.
– Dovevo piegarmi per offrirla, il più in fuori possibile.
– “In fuori” è un avverbio, è vietato. Adesso l’ipotassi.
– …
– L’ipotassi da ora ti è proibita. Non userai più le subordinate. Ti limiterai a soggetto-verbo-complemento, la frase minima.
– D’accordo. L’uomo era alle mie spalle. Scusa, alle spalle. Ha detto: «pronta?». Ha colpito. Una frustata sulla schiena. Ho urlato. Ha preteso silenzio. Mi ha colpito in mezzo alle gambe. Non ho urlato.
– Dimmi le reazioni del tuo corpo.
– Il corpo sentiva dolore. Il corpo provava piacere.
– Basta?
– Il corpo sembrava liquido. Il corpo aveva sete. Il corpo aveva i brividi.
– Con cosa ti ha colpito?
– Una canna di bambù.

Un motivetto sudamericano interrompe l’interrogatorio. È lo squillo di un cellulare, proviene dalla borsa della ragazza. Per l’emozione deve aver dimenticato di togliere la suoneria. Lei alza gli occhi spaventata. Accenna una smorfia di scuse.

– Rispondi, non c’è problema.

La ragazza è incerta: teme di interrompere tutto e di deludere l’uomo, può rispondere dopo, inventerà una scusa.

– Rispondi.

È un ordine, dunque. Si dirige a quattro zampe verso la borsa, non osa alzarsi in piedi, forse ha paura di contravvenire a qualche divieto o semplicemente non vuole sentirsi ridicola a zoppicare. Apre la borsa e fruga. La suoneria risuona in tutta la stanza. Poi trova il telefono.

– Metti il vivavoce. E ricorda, i divieti.
– Pronto? Mamma… Sono da Alice…
– Da Alice? Sei già arrivata ad Arezzo? Tutto bene? Com’è andato il viaggio?
– Il viaggio è stato breve.
– Hai preso la giacca, vero? Che ancora fa fresco…
– Ho preso la giacca.
– Mi raccomando, se stasera uscite copriti.
– Resteremo a casa.
– Mi sento più sicura a saperti a casa. Hai chiamato la nonna? Aspettava una tua telefonata, lo sai che ci tiene. Cerca di chiamarla stasera, cosa ti costa, hai fatto anche il piano con le chiamate incluse…
– Chiamerò la nonna.
– Ti sento strana, tutto bene? Ti trattano bene?
– Sì, mamma. Ciao.

Chiude e rossa in viso riprende la posizione. Impossibile dire se l’uomo sia infastidito o divertito dall’interruzione.

– I sostantivi, ora. Smetti di usarli: parlerai solo con i verbi.
– Obbedisco.
– La pelle.
– Tirava. Bruciava.
– Il sesso.
– Colava.
– Descrivi la natura di ciò che avveniva in te.
– Non potevo evitare. Bagnavo. Gocciolavo.
– Stavi provando piacere?
– …
– Rispondi.
– Godevo.
– Cosa voleva che facessi?
– Colpiva. Non dovevo urlare. Non urlavo. Potevo bere.
– Hai bevuto?
– Ho bevuto.
– Come una cagna.
– Ho bevuto.

La notte è scesa, solo una luce fioca permette di distinguere le ombre delle due persone, le sagome delle poltrone. L’uomo si alza, lentamente. Si dirige in una stanza attigua, torna dopo poco con una candela accesa e una ciotola di alluminio. Appoggia la candela sul tavolino, la ciotola davanti alla ragazza. Prende la brocca e versa l’acqua nella ciotola. La stanza, ora, è molto silenziosa: si sentono solo due respiri, uno affannato e uno profondo. L’uomo resta in piedi davanti a lei, la osserva.

– Hai parlato troppo. Ora risponderai senza parole.
– …
– Sei stata legata?
– Mmmmmh -, annuisce.
– Anche ora, lo sei.
– Mmmmmmh!
– Eppure, guardati: sei vestita, libera, sei esattamente come quando sei arrivata qui, per tua scelta. Non ti ho toccata. Puoi alzarti in qualunque momento e andartene da quella porta.
– Mmmmmmh.

L’uomo percorre molto lentamente un giro intorno a quel corpo rannicchiato sul pavimento che ora sta tremando, percorso da rapidi spasmi. Il campanile inizia a battere la mezzanotte. L’aria si è fatta fresca, dando così ragione alla mamma della ragazza. Un cane abbaia in lontananza.

– Ti stai eccitando.
– …
– Dimmelo.
– Mmmmmh.
– Lo vedo da come strofini le cosce e contrai muscoli. Tu stai godendo.
– Mmmmmmh… mmmmmh.

Un gemito si solleva nell’aria come il fumo della candela. Sembra non avere fine, come la notte che è appena iniziata.

– Bevi.

10 Commenti

  1. Stella
    27 Aprile 2014

    Standing ovation

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  2. Kiska&Sabaka
    28 Aprile 2014

    Racconto interessante, preciso con una cura “particolare” dei dettagli, dalla trama originale quanto inaspettata. Aspettero’ con curiosita’ e molto interesse i prossimi racconti.
    Grazie.

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  3. Laura
    28 Aprile 2014

    Il dominio della parola come controllo del pensiero, terribilmente vero ed originale

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  4. Linda
    28 Aprile 2014

    Letto…

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  5. zadie smith
    4 Maggio 2014

    “Non è che gli ippopotami dicano: «Sì, è stato bello ma con quell’altro ippopotamo è una cosa straordinaria». L’extra in più che gli esseri umani creano è interamente mentale: uno stato d’animo e una creazione del linguaggio. Non riesco a credere che ci sia una tale differenza qualitativa nell’indispensabile sensazione che può dare un pene che entra in una vagina (o qualsiasi altra varietà di genitale). Gli uomini, a differenza degli ippopotami, sono feticisti e l’extra è il linguaggio”. Zadie Smith (N-W, Mondadori Tutto)

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  6. dopamina
    22 Maggio 2014

    Sconvolgente

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  7. dopamina
    27 Giugno 2014

    Lo leggeri mille volte. E mille volte ancora.

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    • inachisio
      1 Luglio 2014

      I misteriosi ma apprezzati commenti di “dopamina”. Grazie!

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  8. Monja
    10 Luglio 2014

    È solo il secondo racconto, che le mie pupille divorano febbricitanti, di questo autore a me sconosciuto che incredibilmente riesce ad insinuarsi prepotentemente nelle viscere e divenire una droga della quale non si può piu’ fare a meno e che crea dipendenza…..non posso che continuare a “drogarmi” delle tue parole…

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